American Idiot, lo si capisce da subito, è un album che è stato scritto per lasciare un segno. Sarà il titolo così definitivamente provocatorio o la granata a forma di cuore che spicca tra il bianco e nero della copertina. Ma sta di fatto che senza nemmeno ascoltarlo si ha già la sensazione di avere tra le mani qualcosa di esplosivo. I Green Day lo concepiscono a distanza di una decade dal precedente loro grande successo Dookie, un peccato quasi adolescenziale da più di quindici milione di copie vendute nel mondo.

È un concept-album, un tipo di opera che in questo momento di singoli sparati su YouTube come petardi a capodanno risulta un po’ anacronistico perché richiede tempo e attenzione per essere vissuto e compreso. Tutte le canzoni sono legate dalla storia di Jimmy, un “Gesù di periferia” che come tanti altri rifiuta il conformismo di chi vive la vita indottrinato dalle informazioni di massa. E lo fa con una certa sofferenza, come a molti accade. La sensazione di sentirsi soli in questo mondo di connessioni fittizie può diventare un gigante contro il quale non si hanno armi per vincere se non quelle dell’alienazione di alcool e droga. Ma questa è una storia che purtroppo conosciamo bene.

I Green Day si sono esposti, in modo piuttosto definitivo. I testi sono chiari, non lasciano dubbi. La musica, altrettanto, graffia come deve in questi casi.
American Idiot nel 2009 diventa un musical, innumerevoli repliche a Broadway. Ed è qui che avviene l’impensabile. È qui che tra il pubblico, una sera qualunque, si presenta anche Donald Trump. Per Billie Joe Armstrong, leader della band, è quasi un affronto. Proprio Trump, uno degli artefici dell’idiozia dell’uomo medio. Intollerabile.

E in effetti, l’attacco ai poteri forti ma soprattuto “condizionanti” che si trova nell’album è piuttosto definitivo e chiaramente indirizzato.
Passano gli anni, arriviamo a oggi. Trump è presidente, non commentiamo. È accaduto ed è la realtà attuale. Trump esce dagli accordi di Parigi, non commentiamo. È la realtà attuale.

I Green Day si espongono nuovamente contro questa scelta, e così accade per una grande fetta dell’opinione pubblica. È giusto. L’argomento è davvero nella top-ten delle priorità evolutive del pianeta e dell’umanità. Ma, come nella delicata realtà di Jimmy in bilico tra il bisogno d’amore e l’illusione delle droghe, anche questo argomento è piuttosto complicato da gestire.

Trump, e con lui gli Stati Uniti, sono usciti dall’accordo. Se io fossi americano, come i Green Day, sarei piuttosto incazzato. Ma la conservazione del nostro pianeta si costruisce sui fatti, non sulle manovre politiche. Trump ha voluto mantenere quello che aveva promesso in campagna elettorale: “prima i lavoratori americani!”. E lui va per la sua strada.

Ma il problema vero è che, ad oggi, l’86 per cento dell’energia globale deriva ancora da fonti fossili e solo il 3 percento da quelle rinnovabili. Se ci fosse la vera volontà di tutto il resto del mondo anche senza gli Stati Uniti arriveremmo ad un grande risultato. Anzi, enorme.
Del resto anche Lennon tanti anni fa diceva che se le persone desiderassero davvero la pace nel mondo allora la pace ci sarebbe… le persone però alla fine desiderano solo una TV nuova.

È una metafora, erano gli anni settanta. Oggi forse al posto della TV c’è uno smartphone.

Ma la musica per fortuna continua ad accompagnare nel bene e nel male le nostre giornate portando un po’ di leggerezza dove serve. American Idiot è un album strepitoso, se non lo avete mai sentito fatelo, se lo avete già sentito riascoltatelo. E speriamo che il nome di questa grande band, i Green Day appunto, sia di buon auspicio per il futuro “green” del nostro pianeta. Sarebbe saggio.

 

Apparso su “La Voce di Reggio Emilia” – Emiliano Fantuzzi ©

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